Le escursioni ai tempi del coronavirus Camminando sui sentieri delle zone più alte del nostro Appennino, oltre il limite degli alberi, capita spesso di udire il fischio delle marmotte. Se siete dei camminatori abituali, questa esperienza vi sarà capitata già molte volte. Ma avete mai provato a far caso a quanti fischi sentite? Quando torneremo a camminare per sentieri, se avrete modo di sentire il fischio delle marmotte, fate dunque attenzione… se il fischio è uno solo, fermatevi e guardate con attenzione verso il cielo: con un pizzico di fortuna e colpo d’occhio potrete assistere allo spettacolo dell’aquila reale in volo di caccia. Ma andiamo con ordine. La marmotta (Marmota marmota) è un mammifero tipico della fauna alpina. Si trovava spontaneamente sui nostri monti all’epoca dell’ultima glaciazione (fra i 16.000 e i 12.000 anni fa) poi, con il mutare del clima, come tante altre specie alpine si è estinta in Appennino. Nel secondo dopoguerra alcuni nuclei di marmotta furono introdotti (in linea strettamente tecnica non possiamo parlare di reintroduzione, essendo trascorso molto tempo dal momento dell’estinzione) sul versante nord del Cimone e in altre aree sommitali del nostro Appennino. I primi fondatori si adattarono bene al nuovo contesto dando origine a quella che è oggi una popolazione diffusa su tutto il crinale. Siccome ciò che mangia si trova in terra e ciò che la mangia vola nel cielo, la marmotta vive, da sempre, attanagliata da un dubbio amletico: guardare in terra e rischiare di morire negli artigli dell’aquila… o guardare per aria e rischiare di morire di fame? Un gran dilemma. Un gran dilemma che la marmotta, approfittando della particolare struttura sociale della specie, risolve con grande eleganza. Tutte le mattine, quando i membri della colonia escono dalle tane per la giornata di pascolo, alcuni individui non si inoltrano nei prati ma, rimasti all’imbocco della galleria della tana, restano in allerta a scrutare il cielo e il terreno intorno per scorgere l’arrivo di eventuali predatori. Dopo un certo tempo le vedette vengono sostituite e possono anche loro pascolare. Quando una sentinella scorge un possibile pericolo avvisa subito le altre marmotte emettendo un allarme sonoro (fischio), la cui tipologia è diversa a seconda del tipo di pericolo. Per le marmotte intente al pascolo un predatore che si avvicini da terra è un pericolo relativo, perché è più facile riuscire a tenerlo d’occhio e scappare rintanandosi all’occorrenza nei rifugi. Ma il predatore alato per eccellenza, l’aquila reale, è un vero e proprio rischio mortale: quando la sua sagoma inconfondibile viene scorta all’orizzonte nessuna delle marmotte intente al pascolo, neppure la stessa sentinella, può essere sicura di aver scampato il pericolo finché si trova con la testa sotto il cielo. Ecco che allora il sistema di allarme si adatta per fornire un’ulteriore informazione: non solo la presenza di un pericolo, ma anche e soprattutto la gravità del pericolo, per far sì che le compagne possano adottare la strategia difensiva migliore, con il più breve tempo di reazione possibile. Solitamente quando sentiamo il segnale di allarme delle marmotte non udiamo un solo fischio, ma una serie cadenzata di fischi. Questo perché spesso siamo proprio noi, con la nostra presenza, a mettere in allarme la sentinella che avvisa le compagne di un possibile pericolo che si avvicina da terra, proprio con una serie prolungata di fischi. Possiamo facilmente scoprire se siamo noi la causa di allarme, perché se ci guardiamo intorno possiamo vedere la sentinella all’imbocco del suo rifugio, spesso in piedi, che ci osserva e continua a fischiare. Il messaggio è: attente! C’è qualcuno che si sta avvicinando, teniamolo d’occhio e se serve fuggiamo. Il pericolo dal cielo produce invece un solo potentissimo fischio che letteralmente taglia l’aria, emesso il quale, in un totale silenzio, anche la sentinella si butta immediatamente al riparo in galleria. Messaggio inequivocabile: si salvi chi può! Davide Pagliai Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri. Visita il nostro sito per scoprire le nostre escursioni.
Le escursioni ai tempi del coronavirus Gaggio Montano è l’ unico paese in Appennino in cui possiamo ammirare un faro…proprio un faro, di quelli con la parabola che servono a guidare le navi nelle notti di tempesta. Il grande blocco ofiolitico che sovrasta il paese è visibile da ogni via di accesso, e il faro fu costruito nel 1952 su progetto dell’Ing. Rinaldi per onorare i caduti di tutte le guerre. Nell’intento del suo progettista, questo faro voleva essere un esempio, il primo nella provincia di Bologna, della possibilità offerte dalla lavorazione del cemento precompresso. L’ Ing. Rinaldi era segretario dell’ Associazione internazionale del cemento precompresso. Ma la vetta di questo blocco ofiolitico merita di essere ricordata per altre vicende storiche, infatti è del XIII secolo la costruzione da parte del Senato Bolognese di una possente Rocca per proteggere i confini. Intorno al 1307 il domino sulla rocca di Gaggio divenne motivo di un’ aspra guerra tra la comunità gaggese e i conti di Panico, alleati ai conti di Montecuccoli (il castello di Montecuccoli si trova nell’ appennino modenese) che posero in stato d’ assedio il paese. Oltre due mesi di strenua resistenza dei gaggesi (e aiutati da un autunno molto piovoso e freddo) fecero desistere le milizie assalitrici che abbandonarono l’ assedio. Il valore dimostrato della popolazione di Gaggio arrivò fino al Senato Bolognese tanto che il capitano Zambrino da Gaggio divenne capo dell’ esercito. Le rivalità però non si sopirono e ci furono guerre ed assedi, fino a quando intorno al XVI secolo, il Senato Bolognese decise che la rocca di Gaggio, insieme a quella di Rocca Pitigliana, non sarebbe stata più usata come linea di difesa contro il territorio confinante modenese, in particolare del Frignano. L’ amministrazione comunale passò nelle mani di un Massaro che fece costruire sulla cima del Sasso una casetta munita di campana: lo scopo principale di avere una campana civica era quello di avvertire la popolazione in caso di pericolo; la rocca di Gaggio era stata costruita con il fronte a sud e faceva corpo con l’abitato principale del paese: ai piedi della rocca si trovavano la chiesa, il comune e le abitazioni delle famiglie più importanti: i Tanari, i Capponi e i Morelli. Ci si rese conto presto che una campana, una GRANDE campana, posta in cima al Sasso poteva essere sentita anche dalle case più lontane (oggi si chiamerebbe periferia) in quanto il suono delle due campane della chiesa non poteva arrivare fino alle ultime abitazioni del paese. Nella campana sono raffigurate alcune immagini:lo stemma della famiglia Tanari, la Madonna con il Bambino e San Giovani, al quale è dedicata la campana. Troviamo anche riportata la data della prima fusione e i nomi di chi la fece rifondere: la campana fu rifatta intorno al 1600, poiché danneggiata da un fulmine e il comune era retto dai Massari Francesco Magnanino e Bernardo Tanari. E per finire due parole sul campanaro. L’ultima campanara di Gaggio, Silvia Rubini detta l’Ersilia, aveva l’ incombenza (tra le altre cose) di suonare il mezzogiorno, un compito non facile: una quotidiana fatica per salire i cento gradoni con qualsiasi tempo fin sulla cima del Sasso e oggettivamente non era facile determinare QUANDO era mezzogiorno in un’ epoca in cui pochissimi possedevano un orologio. Nei primi decenni del ‘900, l’imminente mezzogiorno veniva segnalato ad Ersilia dalla meridiana della Chiesa; nei giorni di nuvolo, pioggia o neve si dice che la campanara avesse altri riferimenti naturali e mai abbia sbagliato a suonare il mezzogiorno. Aveva poi il compito di suonare le campane quando si avvicinava la tempesta; la tradizione popolare affida alla campana questo potere “ A fulgure et tempestate libera nos Domine”. Quando il cielo diventava scuro e si prevedeva tempesta, l’Ersilia partiva e dopo dopo si sentivano i rintocchi della campana. Comunque andasse, la campanara non sbagliava mai: se pioveva, voleva dire che aveva avvisato per tempo la popolazione; se invece il tempo diventava bello e non pioveva, voleva dire che il potere della campana aveva funzionato. Per questo lavoro supplementare non percepiva stipendio, ma dopo la trebbiatura l’Ersilia faceva il giro di tutte le famiglie di Gaggio che, in segno di gratitudine, le davano un po’ di grano. Fabrizio Borgognoni Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Le escursioni ai tempi del coronavirus Dopo la guerra l’attività alpinistica riprende molto lentamente nell’Appennino modenese. Tra i locali le montagne sono viste come un ostacolo alla ricostruzione post bellica; i cittadini modenesi, molto propensi all’escursionismo prima della guerra, si trovano ora in difficoltà nel raggiungere la montagna a causa del cattivo stato delle vie di comunicazione. Non è un caso che le attività riprendano con entusiasmo e costanza solo con gli Anni Sessanta. Il “boom economico” italiano e il ritrovato benessere si manifestano anche sulle montagne modenesi, con itinerari su roccia a Varana e Roccamalatina, e soprattutto con la scoperta dell’alpinismo invernale, in particolare sulle aspre pareti della Valle delle Tagliole. I “magnifici Anni Sessanta”: Giovo e Rondinaio diventano protagonisti indiscussi dell’Appennino modenese. In questo periodo il CAI Modena inizia a organizzare sistematicamente corsi di arrampicata su roccia sulle maggiori falesie modenesi; gli istruttori più preparati e ammirati sono Orazio Coggi ed Enzo Violi, alpinisti di prim’ordine con notevole esperienza di scalate sulle Alpi. La fascia collinare della provincia non presenta una emergenza rocciosa di grande rilevanza come può essere la Pietra di Bismàntova per Reggio Emilia, ma si cercano di valorizzare alpinisticamente le rupi di Varana e Roccamalatina, con la chiodatura di monotiri e brevi vie a più tiri. I Sassi di Varana sono affioramenti di ofiolite (roccia di origine vulcanica) nel territorio di Serramazzoni; col passare dei decenni sono diventati la palestra di roccia di riferimento per i modenesi, soprattutto negli ultimi anni grazie alla chiodatura ravvicinata a spit; pare che persino Cesare Maestri, fortissimo e famoso alpinista trentino, sia passato da qui, individuando un brevissimo monotiro che non a caso è poi stato chiamato “Fessura Maestri”, tra i settori “neofiti” e “castello” della falesia. I Sassi di Roccamalatina sono 4 torrioni di calcarenite presso Guiglia, sui quali vennero aperti itinerari verticali arditi, ma su cui da qualche decennio l’arrampicata è stata bandita per preservare la nidificazione del Falco pellegrino. Il CAI Modena, assieme alle sezioni di Bologna e Pistoia, si fa promotore anche di nuove pubblicazioni, come la Guida dell’Appennino bolognese-modenese-pistoiese, scritta da Giovanni Bortolotti e pubblicata nel 1963. Sempre nel 1963, nel mese di marzo, ritroviamo il modenese Orazio Coggi. Con altri compagni emiliani, l’istruttore del CAI effettua una notevole cavalcata scialpinistica durata 8 giorni con pernottamenti a volte di fortuna. Percorrono il crinale tosco emiliano dal Passo della Cisa al Corno alle Scale, e ribattezzano l’impresa Traversata sciistica dell’Alto Appennino Etrusco. Ed è proprio quella invernale la grande stagione dell’alpinismo modenese nel decennio dei ’60. Vengono definitivamente scoperte dagli scalatori quelle che sono le montagne più “complete” della provincia di Modena. Alla testata della Valle delle Tagliole, sovrastanti i famosi laghi Santo e Baccio, il Monte Giovo, il Rondinaio e il Rondinaio Lombardo si elevano con aspetto aspro, roccioso e imponente, con profili alpestri spigolosi, ben diversi dalle forme più morbide del restante Appennino modenese. Il Giovo è la seconda montagna per altitudine della provincia con 1991 m, ma sicuramente più completa e difficile del Cimone. La sua parete nordest, incombente sul Lago Santo e dal microclima particolarmente freddo, nevoso e severo, è ideale per la pratica dell’alpinismo invernale: creste di ampio respiro, pendii aperti molto ripidi, canaloni verticali. L’elegante Rondinaio, di poco più basso e anch’esso posto sullo spartiacque tosco emiliano, ha una forma piramidale rara per gli Appennini; il versante nord, digradante ondulato verso il Lago Baccio, è ideale per lo scialpinismo; la parete nordest è breve ma verticale e rocciosa, particolarmente “alpina” quando innevata. Il Rondinaio Lombardo 1825 m è un avamposto del “fratello maggiore”, che da esso si stacca protendendosi nel versante emiliano (da qui l’aggettivo Lombardo, riferito all’antica terra dei Longobardi), e cadendo a picco sull’alta valle delle Tagliole con dirupi verticali. Con molta probabilità, è proprio di uno dei primi inverni anni ’60 la salita dell’itinerario alpinistico diventato poi il più classico dell’Appennino modenese, e forse il più ripetuto dell’intero Appennino Settentrionale: il Canale centrale del Giovo, detto anche Canalone del Lago Santo, che taglia verticale la parete nordest del monte quasi al centro del lago, con una linea regolare molto elegante. Alcune fonti indicano come pionieri alpinisti bolognesi, altre fonti alpinisti toscani, altre ancora modenesi. Non si conoscono i nomi, non si conosce la data esatta, fatto sta che, chiunque lo abbia fatto, quasi sicuramente non si stava rendendo conto di aprire un itinerario che sarebbe poi diventato un grande classico. Oggi il Centrale è ultra ripetuto, viene valutato AD+ con inclinazioni massime di 80°, ed è una “perla” immancabile nel curriculum di ogni alpinista modenese. Altra via invernale storica sulla parete nordest del Giovo è la Diretta alla croce, che sale l’aperto pendio di neve ripida sottostante la croce di vetta, con passaggi di misto sulle fasce rocciose presso la cima (55° su neve e II grado su roccia, valutazione complessiva AD). In questo caso abbiamo notizie certe sulla prima salita, avvenuta il 19.3.1962 ad opera di V. Sarperi e G. Severini. E negli Anni Sessanta sale in cattedra Marcello Pesi, forte alpinista toscano che guida cordate di lucchesi spesso in esplorazione nel versante modenese. Pesi e compagni firmano soprattutto due importanti e difficili vie sui Rondinai. Il 3.3.1968 sono i primi di sempre a salire la parete nordest del Rondinaio, rocciosa, ghiacciata e spettacolare; la più “alpina” e fotogenica dell’Appennino modenese. Sempre in quegli anni e in inverno, ma in data imprecisata, Pesi & c violano la repulsiva parete est del Rondinaio Lombardo. Si tratta di due vie impegnative, valutate oggi D, difficili, in ambiente severo su canalini e diedri verticali, cenge esposte, rocce ghiacciate, aperte con una certa audacia dagli alpinisti di Lucca, tenendo anche conto dell’attrezzatura di mezzo secolo fa. Abbigliamento poco confortevole, piccozze e ramponi poco tecnici, scarponi di cuoio molto pesanti. Chapeau. Continua… Francesco Rosati Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Le escursioni ai tempi del coronavirus L’Appennino modenese, per la sua posizione, è da sempre un nodo cruciale per valicare la dorsale che divide l’Italia nei versanti affacciati sui due mari. Già dai tempi dei Romani, e prima, i valichi del nostro Appennino furono importanti crocevia di genti. Lo testimoniano ritrovamenti archeologici, i racconti degli storiografi antichi e anche alcuni toponimi, come il passo “d’Annibale”, situato molto vicino al valico di Foce a Giovo, dove si racconta che il condottiero cartaginese decise di valicare l’Appennino nella sua discesa verso Roma durante la seconda Guerra Punica. Non è certo se egli abbia utilizzato proprio il valico che oggi porta il suo nome, uno dei meno agevoli che avrebbe potuto scegliere. Ma d’altronde il suo motto, poi ripreso dall’esploratore artico Robert Peary, era “troverò una strada o ne aprirò una”. Uno degli ultimi grandi progetti di aprire strade sulle impervie cime appenniniche è quello della strada Ducale di Foce a Giovo. La storia di quello che, con i suoi 1674 metri s.l.m., è il più alto e ardito valico carrozzabile dell’Appennino tosco-emiliano, prende avvio lontano da queste terre, nei raffinati saloni delle dimore delle case regnanti d’Europa. L’epoca è quella della Restaurazione. Nel Congresso di Vienna si limano e si rimettono a posto tessere del mosaico brutalmente scompaginato dalle campagne di Napoleone. E così, spedito il turbolento Còrso e le sue ambizioni in una sperduta isola atlantica, rimane il problema spinoso di Maria Luigia d’Austria… che se era da un lato la moglie di Napoleone, dall’altro rimaneva pur sempre la figlia dell’Imperatore d’Austria. Per salvare capra e cavoli alla Maria Luigia viene concesso vita natural durante il Ducato di Parma e Piacenza, mentre alla Duchessa Maria Luisa di Borbone, fino ad allora signora del Ducato emiliano, venne data Lucca come contropartita. Proprio la risolutezza di Maria Luisa nel creare una nuova via di sbocco da Lucca per il versante padano portò all’avvio dei progetti per la realizzazione della nuova strada che doveva congiungere direttamente Modena con Lucca, senza passare per i territori del Granducato di Toscana. Francesco IV d’Este, Duca di Modena, che non era poi molto convinto, ne ebbe da Lucca in cambio la concessione delle exclave di Castiglione Garfagnana e Minucciano, due “spine nel fianco” rimaste fino ad allora nel territorio garfagnino, per il resto interamente sotto il controllo estense. E così i lavori per la nuova strada iniziarono nel settembre del 1819. Sul lato lucchese si escluse l’opzione di risalire la valle dello Scesta, che imponeva uno sviluppo più lungo e soprattutto una maggiore distanza fra il valico e l’ultimo centro abitato. La scelta ricadde così sul progetto dell’ing. Marracci che prevedeva l’inizio della strada al Ponte delle Catene di Fornoli (opera dell’architetto Nottolini, fatto realizzare nel 1844 da Carlo Ludovico) e la sua risalita lungo la Val Fegana, con un dislivello di 1500 metri dal ponte al valico. Sul lato modenese i problemi erano di natura politica, oltre che tecnica e dovendo evitare il transito per i territori controllati dall’enclave di Barga, si optò per risalire la valle delle Pozze (oggi Val di Luce…ma questa è un’altra storia…) dal ponte di Picchiasassi a Dogana nuova, per poi raggiungere il valico di Foce a Giovo risalendo il versante destro della valle delle Tagliole. I problemi tecnici dovuti alla natura impervia dei luoghi imposero per la nuova strada l’impiego di criteri progettuali e costruttivi modernissimi. Il tracciato si sviluppava per tutto il suo percorso mantenendo sempre pendenze non superiori all’8%, condizione necessaria per permettere il transito di carrozze a traino animale. L’intera opera fu terminata fra l’autunno 1823 e la primavera 1824, quando fu inaugurata. Rimasero da completare solo alcune opere infrastrutturali, quali alcune stazioni di posta sul versante lucchese, che in realtà non vennero mai terminate. Alla Duchessa Maria Luisa successe il figlio Carlo Ludovico di Borbone, che non era dotato della stessa tempra e determinazione della madre. Poco dopo Lucca entrò a far parte del Granducato di Toscana e la strada fu declassata da via Ducale a via Vicinale, sotto le pressioni del governo granducale che non aveva mai visto di buon occhio la realizzazione di un’arteria viaria alternativa alla Ximenes. L’alta quota del valico, con i suoi imponenti accumuli nevosi, e l’apertura di una nuova strada di comunicazione fra Modena e la valle del Serchio (strada delle Radici – 1859) dettero la spallata decisiva e la via fu relegata ad un posto di seconda fila, rimanendo utilizzata solo per gli spostamenti locali. La grande Storia si affaccerà però ancora al valico di Foce a Giovo nell’inverno ’44-’45, quando qui trovò il suo primo impiego la neonata Decima Divisione di Montagna Americana, impegnata nel tentativo di sfondamento della Linea Gotica. Un aneddoto la cui fondatezza storica è tutta da verificare racconta che, incontratisi nei pressi del valico i due governanti in occasione dell’inaugurazione della strada, la Duchessa Maria Luisa, riferendosi alle cime ancora innevate e con un sagace doppio senso anche al capo canuto di Francesco IV, affermò “è primavera ma sulle cime nevica”. Francesco, inteso il doppio senso, rispose con un meno elegante “se sulle cime v’è neve, le vacche ridiscendano al piano”. Ancora oggi, giunti al valico dal versante emiliano, se ci si sofferma sotto l’occhio vigile dei contrafforti rocciosi del Rondinaio lombardo a osservare l’elegante serpentina degli ultimi tornanti che risalgono la Val Fegana, si ha la sensazione di trovarsi a camminare su una vera e propria opera d’arte ingegneristica. Davide Pagliai Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Le escursioni ai tempi del coronavirus Il lago Santo modenese è un luogo di grande fascino e interesse naturalistico. Durante le nostre escursioni in tanti ci chiedono il perché di questo nome curioso. Qualche giorno fa vi abbiamo raccontato una prima versione dell’origine del nome “Santo”, legata alla storia d’amore finita tragicamente fra una pastorella e un misterioso giovine. Alcuni vecchi pensano invece che il nome del Lago Santo sia legato alla leggenda che vi raccontiamo oggi.Una volta un cacciatore si mise in testa di uccidere un grosso, nero e feroce lupo che ormai da tempo dilaniava greggi e persone nella valle delle Tagliole e in quelle circostanti.Con tutti scommetteva che l’avrebbe scovato ed ucciso il giorno stesso, ma ahimè il lupo scaltro continuava le sue incursioni.Ormai questa bestia era per il cacciatore un’ossessione ,tanto che, non ascoltando più i suoi compaesani, passava anche la domenica nei boschi, non preoccupandosi di chiedere l’aiuto di Dio partecipando alla Messa; a chi glielo faceva notare rispondeva: “prima il lupo e poi la messa!”Ormai era ossessionato dal lupo, non mangiava e non dormiva più, era sempre impegnato a pensare dove potesse essere il lupo o la sua tana.Venne l’inverno, un inverno eccezionalmente nevoso, tanto da non permettere più l’orientamento nemmeno ad un cacciatore esperto della zona come lui. Un giorno cercava il lupo in un posto che sapeva essere quello di un grande e profondo lago.Improvvisamente udì un ululato inconfondibile…era quello del suo acerrimo nemico! Senza pensare imbracciò il fucile e si mise a correre in quella direzione ma ahimè sentì prima un piede e poi l’altro affondare prima nella neve e poi, rompendo un sottile strato di ghiaccio sprofondare nell’acqua del lago…Mentre annegava annaspando udì per l’ultima volta la voce del lupo che si beffava ancora di lui. Dopo la sciagurata fine del cacciatore gli abitanti della valle chiesero ed ottennero che il Vescovo in persona salisse nel luogo dove si trovava il lago, per impartire la sua benedizione alle acque. Da allora il lago è “Santo”, per ammonire i buoni cristiani sui loro doveri. Alessandro Cappellini Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Domenica 13 Novembre 2022 – ore 9.30 Levanto...
Sabato 15 Ottobre 2022 – ore 9.15 Passo delle...
Domenica 2 Ottobre – ore 9.00 Magrignana ...