Le escursioni ai tempi del coronavirus Camminando sui sentieri delle zone più alte del nostro Appennino, oltre il limite degli alberi, capita spesso di udire il fischio delle marmotte. Se siete dei camminatori abituali, questa esperienza vi sarà capitata già molte volte. Ma avete mai provato a far caso a quanti fischi sentite? Quando torneremo a camminare per sentieri, se avrete modo di sentire il fischio delle marmotte, fate dunque attenzione… se il fischio è uno solo, fermatevi e guardate con attenzione verso il cielo: con un pizzico di fortuna e colpo d’occhio potrete assistere allo spettacolo dell’aquila reale in volo di caccia. Ma andiamo con ordine. La marmotta (Marmota marmota) è un mammifero tipico della fauna alpina. Si trovava spontaneamente sui nostri monti all’epoca dell’ultima glaciazione (fra i 16.000 e i 12.000 anni fa) poi, con il mutare del clima, come tante altre specie alpine si è estinta in Appennino. Nel secondo dopoguerra alcuni nuclei di marmotta furono introdotti (in linea strettamente tecnica non possiamo parlare di reintroduzione, essendo trascorso molto tempo dal momento dell’estinzione) sul versante nord del Cimone e in altre aree sommitali del nostro Appennino. I primi fondatori si adattarono bene al nuovo contesto dando origine a quella che è oggi una popolazione diffusa su tutto il crinale. Siccome ciò che mangia si trova in terra e ciò che la mangia vola nel cielo, la marmotta vive, da sempre, attanagliata da un dubbio amletico: guardare in terra e rischiare di morire negli artigli dell’aquila… o guardare per aria e rischiare di morire di fame? Un gran dilemma. Un gran dilemma che la marmotta, approfittando della particolare struttura sociale della specie, risolve con grande eleganza. Tutte le mattine, quando i membri della colonia escono dalle tane per la giornata di pascolo, alcuni individui non si inoltrano nei prati ma, rimasti all’imbocco della galleria della tana, restano in allerta a scrutare il cielo e il terreno intorno per scorgere l’arrivo di eventuali predatori. Dopo un certo tempo le vedette vengono sostituite e possono anche loro pascolare. Quando una sentinella scorge un possibile pericolo avvisa subito le altre marmotte emettendo un allarme sonoro (fischio), la cui tipologia è diversa a seconda del tipo di pericolo. Per le marmotte intente al pascolo un predatore che si avvicini da terra è un pericolo relativo, perché è più facile riuscire a tenerlo d’occhio e scappare rintanandosi all’occorrenza nei rifugi. Ma il predatore alato per eccellenza, l’aquila reale, è un vero e proprio rischio mortale: quando la sua sagoma inconfondibile viene scorta all’orizzonte nessuna delle marmotte intente al pascolo, neppure la stessa sentinella, può essere sicura di aver scampato il pericolo finché si trova con la testa sotto il cielo. Ecco che allora il sistema di allarme si adatta per fornire un’ulteriore informazione: non solo la presenza di un pericolo, ma anche e soprattutto la gravità del pericolo, per far sì che le compagne possano adottare la strategia difensiva migliore, con il più breve tempo di reazione possibile. Solitamente quando sentiamo il segnale di allarme delle marmotte non udiamo un solo fischio, ma una serie cadenzata di fischi. Questo perché spesso siamo proprio noi, con la nostra presenza, a mettere in allarme la sentinella che avvisa le compagne di un possibile pericolo che si avvicina da terra, proprio con una serie prolungata di fischi. Possiamo facilmente scoprire se siamo noi la causa di allarme, perché se ci guardiamo intorno possiamo vedere la sentinella all’imbocco del suo rifugio, spesso in piedi, che ci osserva e continua a fischiare. Il messaggio è: attente! C’è qualcuno che si sta avvicinando, teniamolo d’occhio e se serve fuggiamo. Il pericolo dal cielo produce invece un solo potentissimo fischio che letteralmente taglia l’aria, emesso il quale, in un totale silenzio, anche la sentinella si butta immediatamente al riparo in galleria. Messaggio inequivocabile: si salvi chi può! Davide Pagliai Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri. Visita il nostro sito per scoprire le nostre escursioni.
Le escursioni ai tempi del coronavirus L’Appennino modenese, per la sua posizione, è da sempre un nodo cruciale per valicare la dorsale che divide l’Italia nei versanti affacciati sui due mari. Già dai tempi dei Romani, e prima, i valichi del nostro Appennino furono importanti crocevia di genti. Lo testimoniano ritrovamenti archeologici, i racconti degli storiografi antichi e anche alcuni toponimi, come il passo “d’Annibale”, situato molto vicino al valico di Foce a Giovo, dove si racconta che il condottiero cartaginese decise di valicare l’Appennino nella sua discesa verso Roma durante la seconda Guerra Punica. Non è certo se egli abbia utilizzato proprio il valico che oggi porta il suo nome, uno dei meno agevoli che avrebbe potuto scegliere. Ma d’altronde il suo motto, poi ripreso dall’esploratore artico Robert Peary, era “troverò una strada o ne aprirò una”. Uno degli ultimi grandi progetti di aprire strade sulle impervie cime appenniniche è quello della strada Ducale di Foce a Giovo. La storia di quello che, con i suoi 1674 metri s.l.m., è il più alto e ardito valico carrozzabile dell’Appennino tosco-emiliano, prende avvio lontano da queste terre, nei raffinati saloni delle dimore delle case regnanti d’Europa. L’epoca è quella della Restaurazione. Nel Congresso di Vienna si limano e si rimettono a posto tessere del mosaico brutalmente scompaginato dalle campagne di Napoleone. E così, spedito il turbolento Còrso e le sue ambizioni in una sperduta isola atlantica, rimane il problema spinoso di Maria Luigia d’Austria… che se era da un lato la moglie di Napoleone, dall’altro rimaneva pur sempre la figlia dell’Imperatore d’Austria. Per salvare capra e cavoli alla Maria Luigia viene concesso vita natural durante il Ducato di Parma e Piacenza, mentre alla Duchessa Maria Luisa di Borbone, fino ad allora signora del Ducato emiliano, venne data Lucca come contropartita. Proprio la risolutezza di Maria Luisa nel creare una nuova via di sbocco da Lucca per il versante padano portò all’avvio dei progetti per la realizzazione della nuova strada che doveva congiungere direttamente Modena con Lucca, senza passare per i territori del Granducato di Toscana. Francesco IV d’Este, Duca di Modena, che non era poi molto convinto, ne ebbe da Lucca in cambio la concessione delle exclave di Castiglione Garfagnana e Minucciano, due “spine nel fianco” rimaste fino ad allora nel territorio garfagnino, per il resto interamente sotto il controllo estense. E così i lavori per la nuova strada iniziarono nel settembre del 1819. Sul lato lucchese si escluse l’opzione di risalire la valle dello Scesta, che imponeva uno sviluppo più lungo e soprattutto una maggiore distanza fra il valico e l’ultimo centro abitato. La scelta ricadde così sul progetto dell’ing. Marracci che prevedeva l’inizio della strada al Ponte delle Catene di Fornoli (opera dell’architetto Nottolini, fatto realizzare nel 1844 da Carlo Ludovico) e la sua risalita lungo la Val Fegana, con un dislivello di 1500 metri dal ponte al valico. Sul lato modenese i problemi erano di natura politica, oltre che tecnica e dovendo evitare il transito per i territori controllati dall’enclave di Barga, si optò per risalire la valle delle Pozze (oggi Val di Luce…ma questa è un’altra storia…) dal ponte di Picchiasassi a Dogana nuova, per poi raggiungere il valico di Foce a Giovo risalendo il versante destro della valle delle Tagliole. I problemi tecnici dovuti alla natura impervia dei luoghi imposero per la nuova strada l’impiego di criteri progettuali e costruttivi modernissimi. Il tracciato si sviluppava per tutto il suo percorso mantenendo sempre pendenze non superiori all’8%, condizione necessaria per permettere il transito di carrozze a traino animale. L’intera opera fu terminata fra l’autunno 1823 e la primavera 1824, quando fu inaugurata. Rimasero da completare solo alcune opere infrastrutturali, quali alcune stazioni di posta sul versante lucchese, che in realtà non vennero mai terminate. Alla Duchessa Maria Luisa successe il figlio Carlo Ludovico di Borbone, che non era dotato della stessa tempra e determinazione della madre. Poco dopo Lucca entrò a far parte del Granducato di Toscana e la strada fu declassata da via Ducale a via Vicinale, sotto le pressioni del governo granducale che non aveva mai visto di buon occhio la realizzazione di un’arteria viaria alternativa alla Ximenes. L’alta quota del valico, con i suoi imponenti accumuli nevosi, e l’apertura di una nuova strada di comunicazione fra Modena e la valle del Serchio (strada delle Radici – 1859) dettero la spallata decisiva e la via fu relegata ad un posto di seconda fila, rimanendo utilizzata solo per gli spostamenti locali. La grande Storia si affaccerà però ancora al valico di Foce a Giovo nell’inverno ’44-’45, quando qui trovò il suo primo impiego la neonata Decima Divisione di Montagna Americana, impegnata nel tentativo di sfondamento della Linea Gotica. Un aneddoto la cui fondatezza storica è tutta da verificare racconta che, incontratisi nei pressi del valico i due governanti in occasione dell’inaugurazione della strada, la Duchessa Maria Luisa, riferendosi alle cime ancora innevate e con un sagace doppio senso anche al capo canuto di Francesco IV, affermò “è primavera ma sulle cime nevica”. Francesco, inteso il doppio senso, rispose con un meno elegante “se sulle cime v’è neve, le vacche ridiscendano al piano”. Ancora oggi, giunti al valico dal versante emiliano, se ci si sofferma sotto l’occhio vigile dei contrafforti rocciosi del Rondinaio lombardo a osservare l’elegante serpentina degli ultimi tornanti che risalgono la Val Fegana, si ha la sensazione di trovarsi a camminare su una vera e propria opera d’arte ingegneristica. Davide Pagliai Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Le escursioni ai tempi del coronavirus Eccoci, cari amici camminatori, alla seconda puntata della storia dell’alpinismo modenese. Innanzitutto è bene ricordare che noi ci occuperemo dei fatti principali che riguardano la conquista delle vette e, in epoca moderna, l’apertura di nuove vie di arrampicata. Non scriveremo, in questa sede, dell’antico peregrinare attraverso i valichi, molti dei quali frequentati sin da tempi remotissimi, la Croce Arcana e la Bocca del Fornello su tutti. Né scriveremo alcunché riguardo le pluri secolari vie di comunicazione transappenniniche, pur sapendo che queste nella storia locale rivestono grande importanza (Via Bibulca, Via dei Remi, Via Vandelli, e altre). Per quanto riguarda la storia dell’alpinismo vera e propria possiamo individuare una preistoria, nella quale le cime principali venivano raggiunte non con l’obiettivo moderno e sportivo della salita a una vetta, ma per esplorazioni geografiche, per pastorizia seguendo le greggi, con motivazioni scientifiche e addirittura persino politiche. La preistoria dell’alpinismo sulle montagne modenesi. Quando l’uomo non aveva ancora scoperto che andare in montagna è una attività non solo faticosa, ma anche piacevole e soddisfacente, erano poche e saltuarie le salite alle vette principali; e queste poche non avvenivano per scopi ludici. Sappiamo quasi per certo che la vetta del Cimone era frequentata sin dai tempi dell’Impero Romano, visto che proprio attorno ai 2165 m sono state rinvenute monete e iscrizioni riconducibili al periodo imperiale. Non sappiamo però cosa spinse le genti di quell’epoca a salire fin lassù. Era invece la pastorizia il motivo per cui pastori di Barga frequentavano probabilmente già dal Medioevo la vetta dell’Alpe di Barga, oggi meglio nota come Cima dell’Omo, che si eleva a 1858 m sullo spartiacque tosco emiliano, attualmente tra le province di Lucca e Modena. I possedimenti del Comune di Barga nel Medioevo erano molto vasti, e si spingevano al di qua dello spartiacque. I pastori del borgo toscano in estate portavano le greggi al pascolo proprio sui pendii scoscesi della omonima Alpe (lo fanno tuttora), valicando la cima e scendendo nel versante adriatico. Questi pastori lasciavano tracce del loro passaggio, costruendo i cosiddetti “ometti di sassi”, sia per orientarsi che per segnare le cime principali. Dopo l’Unità d’Italia, quando ci fu il primo rilevamento cartografico del Regno, i cartografi rinvennero in vetta un grande ometto di pietre e, ignari dello storico nome Alpe di Barga, battezzarono il monte Cima dell’Omo, toponimo mai più variato sulle cartine. Fu invece la politica, quanto meno in senso lato, che spinse il Conte Guidinello Montecuccoli a salire in vetta al Cimone nel 1567. Il signore del Frignano volle raggiungere il punto più alto dei suoi possedimenti, per ammirarne meglio la vastità. È questa la prima salita documentata al culmine dell’Appennino Settentrionale, ed anche la prima escursione documentata a una cima modenese con l’obiettivo di raggiungere la vetta. Dopo nobili e prìncipi, arrivò il turno degli scienziati. Nella preistoria dell’alpinismo, anche sulle Alpi, le motivazioni scientifiche sono state spesso decisive per il raggiungimento delle cime più abbordabili. Anche in questo caso, era il Cimone ad attirare maggiormente l’attenzione; per la maggiore altitudine, evidente anche da fondovalle, e per la posizione isolata ideale per i primi, rudimentali rilevamenti meteorologici. Nel XVII, XVIII e inizio del XIX secolo pare che il culmine del Cimone fu calcato da non pochi studiosi. Con il passare dei decenni del XIX secolo le motivazioni che spingevano gli uomini a salire in vetta iniziarono a cambiare, similmente a quanto sulle Alpi stava accadendo dalla fine del ‘700. Gli uomini iniziavano a salire in cima alle montagne per sport, perché la montagna stava lì e qualche uomo desiderava salirla per il gusto della fatica, della vetta, del panorama. Anche sull’Appennino modenese stava nascendo l’alpinismo moderno. Nascono il CAI e i primi Rifugi, e un grande pioniere sfida l’inverno sulle cime principali. Attorno alla metà dell’Ottocento “andare in montagna” è diventata una attività alla moda, in particolare tra gli aristocratici dei maggiori Paesi d’Europa. Nel 1863, soltanto due anni dopo l’Unità d’Italia, nasce il CAI, terzo club alpino al mondo (nel 1862 era nato il Österreichischen Alpenverein, qualche anno prima ancora il British Alpine Club). Soltanto dodici anni dopo la fondazione del Sodalizio, avvenuta a Torino, nel 1875 nasce la sezione di Modena del Club Alpino Italiano. Di poco più datata è la sezione di Firenze. Proprio un socio del CAI Firenze è protagonista di un paio di escursioni alpinistiche di grande rilevanza storica, ed anche di un certo prestigio tecnico in rapporto al periodo. Nel 1876 Damiano Marinelli sale in inverno il Cimone e il Rondinaio; sono le prime invernali ufficiali a due cime importanti del modenese. Oggigiorno si tratta di due salite alla portata di escursionisti esperti: abbigliamento tecnico moderno e attrezzatura alpinistica all’avanguardia (piccozza e ramponi) rendono queste cime fattibili per molti. Ma non dimentichiamo in che anno (e in che stagione) furono effettuate quelle salite. Allora si andava in montagna con lo stesso vestito con cui si andava a Messa la domenica e a comprare il pane il mercoledì; gli scarponi erano robusti ma rudimentali, chiodati in suola per un grip maggiore su neve e ghiaccio; anziché la piccozza si usava un’ascia da boscaiolo, oppure un lungo e robusto bastone in legno con la punta in ferro (il cosiddetto alpenstock). Il Monte Rondinaio 1964 m, elegante vetta piramidale dai fianchi scoscesi e rocciosi, fu raggiunta da Marinelli probabilmente da nord, attraverso la valle del Lago Baccio. Il Cimone forse dal versante sud, quello che si affaccia su Fiumalbo. Damiano Marinelli, laziale di nascita e toscano di adozione, è già stato pioniere d’inverno sul tetto dell’Appennino Umbro-Marchigiano, il Monte Vettore; “usa” le invernali sugli Appennini per prepararsi a future scalate alpine e i fatti gli danno ragione. Diventa velocemente un alpinista di punta, compiendo varie “prime”, in particolare nel Gruppo dell’Ortles. Pochi anni dopo, muore tragicamente nel tentativo di scalare la mastodontica parete est del Monte Rosa, travolto da una valanga con le sue Guide in un canalone che da allora porta il suo nome. Un futuro grande alpinista si è quindi forgiato sulle nostre montagne, ma, indipendentemente da Marinelli, sono anni in cui le nostre montagne conoscono una sorta di “boom” alpinistico e turistico. È talmente alta la frequentazione dell’Appennino in questo periodo che nel 1878 il CAI Firenze e il CAI Bologna collaborano nella costruzione del Rifugio al Lago Scaffaiolo a 1795 m s.l.m., il primo Rifugio di tutto l’Appennino Tosco Emiliano. La costruzione attuale, frequentatissima, non è quella originaria, ed è stata ribattezzata Rifugio Duca degli Abruzzi in onore alle spedizioni alpinistiche extra europee organizzate da Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900. Nel 1892 ecco sorgere la prima di tante (adesso anche troppe) costruzioni sulla vetta del Cimone: una torre che fungeva da osservatorio meteorologico, in seguito demolita. Il 12.8.1908 viene eretta la Madonna della Neve, che ancora oggi si celebra, ogni 5 agosto. L’inizio del ‘900 vede anche le prime salite scialpinistiche. Sono note soprattutto le prime assolute di sciatori fiorentini nel febbraio 1911, all’Alpe delle Tre Potenze 1942 m, al Libro Aperto 1936 m e al Monte Gomito 1892 m. Si tratta di cime poste sul crinale spartiacque tosco emiliano, ben note ai frequentatori delle nostre montagne. Tra le due guerre mondiali è da ricordare il 1939. In questo anno il CAI Modena costruisce il Rifugio Romualdi a pochi metri dalla vetta al Cimone, un edificio che in seguito sarà confiscato dall’Aeronautica Militare quando la base militare e meteorologica (istituita a partire dal 1936) sarà allargata fino a occupare tutta la sommità del monte. L’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista nel giugno 1940 interrompe ovunque, anche in Appennino modenese, le attività escursionistiche e alpinistiche, che fino al 1945 risultano limitate e prive di eventi significativi. Continua… Francesco Rosati Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Le escursioni ai tempi del coronavirus Un Giorno di moltissimo tempo fa una pastorella risaliva con il suo gregge, cantando canzoni d’amore, il Rio delle Tagliole . Giunta ormai in vista del Monte Giovo vide su di un prato un giovane e bel pastore che ricambiava i suoi sguardi.Ma i tempi non erano quelli moderni; un po’ per timidezza, un po’ perchè era sconveniente avvicinare uno sconosciuto, o vuoi perchè era ormai sera e gli armenti andavano ricoverati, i due ragazzi dovettero far ritorno ai rispettivi ovili.Da quel giorno però La ragazza pensava al pastorello e fantasticava su quello che sarebbe potuto accadere al loro prossimo incontro.Giunse il Natale e la ragazza, vestita con gli abiti della festa si avventurò sola soletta su per la valle, alla ricerca del ragazzo.Giunse sulle sponde del lago ghiacciato ed eccolo! Era là che la aspettava, pareva da sempre, e la osservava dalla sponda opposta.Contemporaneamente si corsero incontro sul lago ghiacciato, fino a stringersi per un singolo lunghissimo e brevissimo istante;Con un terribile boato il ghiaccio crepò sotto i loro piedi e i due amanti, felici e increduli, rendendosi conto che quello sarebbe stato il primo e l’unico infinito abbraccio sprofondarono stretti nelle buie, gelide e profonde acque del lago. Rimase solo un rosso fazzoletto a galleggiare, testimonianza di ciò che era successo.Ora si dice che, navigando sul lago, quando si raggiunge il punto esatto dove i due amanti sprofondarono una voce salga dalle profondità: “Non violate o uomini queste acque, rese sacre e rese sante dal nostro amore e dal nostro sacrificio”.Da allora nessuno, nemmeno i pastori che qui giungono esausti hanno il coraggio di immergersi in queste acque. Alessandro Cappellini Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Le escursioni ai tempi del coronavirus Arrivare dal Lago del Cavone al Lago Scaffaiolo è senza dubbio una delle “gite” domenicali più diffuse. Situato a pochi metri dal Monte Cupolino, il Lago Scaffaiolo prende il nome probabilmente dalla parola dialettale “scaffa”, termine con cui noi montanari indichiamo un avvallamento o una conca: infatti, a differenza di altri laghi dell’ Appennino, il Lago Scaffaiolo non è di origine glaciale ed a esso sono legate molte leggende alimentate dalla fantasia. La più famosa riguarda la profondità del lago: a prima vista, il lago non sembra molto profondo, ma siccome ci sono state in passato difficoltà a scandagliarlo, ecco che subito nacque l’opinione che lo Scaffaiolo fosse senza fondo e che abbia comunicazione (ma non si sa bene come) direttamente con il mare; per questo motivo i vecchi della zona ritenevano fosse impossibile misurare la profondità e che ogni cosa (o essere vivente) finiti nel lago non sarebbero stati mai più ritrovati, In realtà, il lago è profondo due metri e mezzo. Attenzione anche a gettare sassi nel lago: l’ incauto viaggiatore che lancia un sasso nel lago rischia di far scoppiare il finimondo. L’aria si riempie di forti boati, le acque si agitano fuoriuscendo dall’invaso spazzando via cose e persone; contemporaneamente cala una fitta nebbia coprendo tutta la zona e nascondendo il disastro. Gli abitanti iniziarono a credere che il Lago fosse infestato da spiriti maligni, capace di nuocere in ogni modo e di causare guai apocalittici. Quando, nel Novecento, presso Lizzano pistoiese (versante toscano) si verificarono imponenti frane, gli abitanti attribuirono proprio agli spiriti maligni del lago l’accaduto. Fabrizio Borgognoni Guida Ambientale Escursionistica La via dei monti Questo articolo fa parte del ciclo di storie “Le escursioni ai tempi del coronavirus”: una raccolta di aneddoti, racconti e nozioni naturalistiche online a cura delle Guide Escursionistiche de La via dei monti, per tenervi compagnia in questo momento di digiuno dalle escursioni. Leggerli sarà come partecipare ad una camminata virtuale con le nostre guide, pur restando a casa, in attesa di ritrovarci presto per sentieri.
Domenica 13 Novembre 2022 – ore 9.30 Levanto...
Sabato 15 Ottobre 2022 – ore 9.15 Passo delle...
Domenica 2 Ottobre – ore 9.00 Magrignana ...